Ep. 73: Davide Ferrario - Un percorso non convenzionale tra cinema, letteratura e arte Podcast By  cover art

Ep. 73: Davide Ferrario - Un percorso non convenzionale tra cinema, letteratura e arte

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Davide Ferrario si definisce "un torinese per caso". Cresciuto a Bergamo fino al 1998, oggi è considerato uno dei registi di riferimento di Torino, città che ha raccontato attraverso i suoi film. Nel dialogo con Carlo De Marchis, Ferrario ripercorre il suo percorso professionale e personale, rivelando come casualità, amore e praticità bergamasca abbiano plasmato la sua carriera.La sua formazione inizia negli anni '70 a Bergamo, in un cineforum con 6.000 soci. "Era diventato più che altro un punto d'incontro," racconta, "c'era tutta la New Hollywood, c'era Antonioni, c'era Easy Rider, quindi andavi a vedere quei film lì poi stavi fuori tutta la sera a parlarne." Questa esperienza gli permette di avvicinarsi al cinema sia artisticamente che commercialmente, distribuendo in Italia registi come Wenders e Fassbinder.Negli anni '80, diventa agente per registi americani indipendenti come Spike Lee e Jarmusch. Una svolta arriva nel 1986, quando trascorre due mesi sul set di John Sayles in West Virginia. Osservando il processo di realizzazione, si convince di poter dirigere: "Un film brutto in più lo posso fare anch'io, peggio di quello che vedo non farò." Inizia così la sua carriera con "La fine della notte".Il rapporto con Torino inizia già negli anni '70, quando frequenta la città per ragioni sentimentali. Contrariamente all'immagine di "grigia Torino degli anni di Piombo," lui ne ricorda l'energia: "Io questa città l'amavo molto perché proprio in quel conflitto c'era tanta energia." Rammenta una Torino culturalmente vivace, con la Giunta Novelli che portava la cultura in periferia.La svolta professionale e personale arriva con "Tutti giù per terra" (1997), tratto dal romanzo di Culicchia e interpretato da Mastandrea. Durante le riprese, si innamora dell'assistente scenografa, che diventerà la sua compagna. "È stato l'amore che mi ha portato qua, l'amore che ancora mi tiene ma forse anche tanto altro adesso."Ferrario descrive Torino come "camaleonte": "È una città che ha una forte identità sua ma tu attraversi una strada e cambi completamente quartiere." Nel periodo dei Murazzi, apprezza l'atmosfera della città: "Era davvero una città provinciale in senso positivo, costruivi dei rapporti umani che poi diventavano anche rapporti di lavoro e di creatività."Il legame con la città si cementa con "Dopo mezzanotte" (2004), realizzato con fondi personali, che ottiene successo internazionale. "Se andava male eravamo tutti sotto un trailer e probabilmente adesso non sarei qui a raccontare queste storie."Un aspetto fondamentale del suo approccio è il bilico tra professionalità e dilettantismo. "Io amo molto le persone che sanno fare bene il loro lavoro prima delle chiacchiere," spiega, ma rifiuta l'idea che l'identità di una persona si riduca al mestiere: "Non vuol dire appiattire la persona solo a quello." Questa filosofia gli permette di muoversi tra diversi mezzi espressivi: cinema, letteratura, installazioni.Il suo primo romanzo, "Dissolvenza al nero", nasce nel 1994 come sfida dopo aver letto un bestseller di Crichton. Quattordici anni dopo pubblica "Sangue mio", ispirato alla sua esperienza come volontario in carcere, e nel 2023 esce "L'isola della felicità", una satira su Nauru, minuscola repubblica che rappresenta una metafora della civiltà occidentale.A quasi settant'anni, Ferrario si trova in una fase curiosa della carriera, passando con disinvoltura tra diversi mezzi espressivi. Questa versatilità riflette il suo rifiuto di etichette: "Due cose fuggo come la peste: l'autobiografismo e la psicologia." Preferisce costruire la sua fiction su basi reali, su ricerche o esperienze dirette.Riflessivo sulla mancanza di utopia nel mondo contemporaneo, si considera un figlio degli anni '70: "Noi siamo cresciuti in un paese in cui non c'era il divorzio e c'era il delitto d'onore. Non si deve dimenticare queste robe qua."

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